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05/12/2023

NORVEGIA. IL REBUS PIU' COMPLICATO. COME RISOLVERLO?

NORVEGIA. IL REBUS PIU

Quest’anno sono stati 6 gli azzurri della Corsa Orientamento che hanno avuto la possibilità di gareggiare a Østfold, per le gare di Coppa del Mondo di fine aprile. Un appuntamento con 31 nazioni rappresentate e ben 261 atleti al via, ossia il meglio del circuito internazionale.

Per gli azzurri è stato un momento decisamente formativo in cui hanno sofferto su un terreno ritenuto ostico. Come è possibile che un apparente paradiso terrestre, formato da muschi, un terreno soffice e da una vegetazione selvaggia, possa trasformarsi in un tale inferno? E come riuscire a risolvere un rebus tanto complicato, ossia quello di migliorare nella performance orientistica, nel  futuro? Proviamo a costruire un ragionamento con il nostro atleta numero uno, Riccardo Scalet, 27enne e 33° del ranking mondiale, 16° di quello Sprint.

Il trentino, che non difetta in professionalità e talento, ha fatto di questa disciplina un pilastro della sua vita sportiva e non solo. E’ lui che ci agevola in alcune considerazioni sull’esperienza norvegese per noi dai risultati alterni.

“Il discorso è molto ampio e non subito spiegato. - racconta Scalet in una pausa tra allenamenti e viaggi - Facciamo però una doverosa premessa partendo proprio dalle gare di Coppa del Mondo. Dal 2019, le regole di accesso alle competizioni sono cambiate, ed ora le grandi nazioni possono schierare 9 rappresentanti (o 10 se vi è il campione mondiale o europeo tra le sue fila). Ciò significa un aumento della concorrenza. La top 20 di qualche anno fa, ora diventa una top 40”.

Ai Mondiali invece il formato è sempre quello classico.  Per assurdo è più semplice fare risultato, in termini di piazzamento, ad un WOC. “Il livello è sempre altissimo. Cambia il numero di avversari e quando il terreno è a tuo favore arrivi in top 20 o 30.  Su terreni meno agevoli la concorrenza ti spinge subito fuori delle posizioni migliori”.

Non stiamo a focalizzare l’attenzione sul tema legato alle disparità di forze economiche e organizzative in campo, che prendiamo per assodato. All’estero il professionismo, ufficiale o mascherato, vede atleti impegnati al 100% sulla disciplina della C-O. Anche i Italia ci sono alcuni ragazzi che si dedicano a tempo pieno all’orientamento e mancare il grande piazzamento non significa allenarsi meno rispetto ai campioni. Cosa manca per colmare il gap prestazionale?

“Arrivati a livello alto – argomenta con lucidità Scalet - l’allenamento è lo stesso per tutti e quello che cambia è la qualità del training. In certe nazioni hanno una cultura di settore, tecnici e strutture. Vi faccio un esempio: Un giovane svedese corre e si allena con ex campioni del mondo. Un training in quel contesto vale come 10 dei miei allenamenti. Questo non vuol dire che io non sia forte come loro, ma la ricchezza intrinseca di quel movimento è sicuramente maggiore (logistica, organizzazione dell’allenamento di qualità). Dettagli che portano a risultati migliori”. 

Il concetto espresso da Scalet si può riassumere in know-how, ossia quell’insieme di conoscenze che permettono di ottimizzare, di evitare gli errori ed arrivare con più facilità all’obiettivo.

“Il concetto è corretto. Lo dicevo anche ai nostri tecnici e compagni. Gli altri non hanno nulla più di noi e i risultati non si ottengono solo con i budget.

Sicuramente questa situazione ti richiede più tempo per arrivare al risultato, ma non è impossibile raggiungerli. In Francia hanno cresciuto atleti di livello Mondiale ed è una nazione, al pari dell’Italia, giovane dal punto di vista dell’Orienteering. Diverso il discorso per la Svizzera, con una base di tesserati più solida e dei Campionati nazionale da 3.000 partecipanti (Noi siamo in 7-800). Tornando alla domanda iniziale ritengo che si tratti di un processo non così semplice da avviare. E’ necessario il lavoro di Federazione, tecnici, organizzatori e squadre. Ci vuole pazienza e lavoro. Il nostro obiettivo è dimostrare che si può fare. Forse serviranno  15 anni,  magari non con la mia generazione, ma con quella dopo. Mi ritengo realista, ma ottimista”.

L’analisi prosegue entrando nello specifico. Ricordiamo una considerazione fatta da Stefania Corradini sullo Sci-O, che rischia di diventare uno sport troppo elitario a causa dell’iper-tecnicismo. Anche la Corsa Orientamento può soffrire di iper-specializzazione? Alcuni terreni possono escludere a priori certe nazioni? 

“Esistono terreni duri, tante Nazioni li contemplano. Per contro la Norvegia è difficile da digerire. Ci si deve abituare a correre su un fondo così soffice. Chi si sposta lì poi impara ad affrontarlo. Questo potrebbe però portare ad una perdita della velocità di corsa, in altre situazioni. In Norvegia si sprofonda e la tecnica di corsa non ricorda la nostra. Non si usano caviglie e polpacci, ma glutei e parte bassa della schiena. Fisicamente bisogna prepararsi diversamente. I risultati dicono che anche gli svizzeri erano lontani dal podio a Østfold. Per contro chi sarà a Films Laax potrebbe incorrere in altri problemi, come l’altitudine e la salita. Il ragionamento sul fatto che gli atleti locali sono avvantaggiati è corretto. Lo abbiamo visto anche in Italia, in Cansiglio, dove sono arrivato 3°. Credo che se quelle gare si fossero svolte su un terreno continentale, come ad esempio Sesto Calende, avremmo avuto risultati ancora differenti”.

Scalet aggiunge nuove considerazioni ed affina il concetto. “L’abitudine ad un nuovo terreno si acquisisce in un paio di giorni, ma chi ha quella abilità affinata negli anni si ritrova con un feeling impagabile e quasi inarrivabile. Forse è un concetto molto elitario e di non semplice comprensione”.

Ci si chiede quale possa essere la prossima Norvegia. In modo da prevenire, se possibile, certe difficoltà. “Nel 2025 saremo in Finlandia. Un altro terreno morbido e soffice, dove in estate vi è ancor più vegetazione.  Una sfida del genere non si prepara in un mese o una settimana di training camp. Non si può avere la presunzione di essere al livello di chi vive in quei posti. Dobbiamo imparare ad uscire dalla nostra comfort zone, correre con i migliori e rubarne i segreti, come in tutti gli sport, se si vuole migliorare. Non esiste una via facile per arrivare al successo”.

Proviamo a carpire a Scalet altre informazioni. Ad esempio quali possano essere dei terreni propedeutici, a certe tipologie di gara, in Italia, visto che, per motivi diversi, non tutti possono passare mesi all’estero: “Ci sono zone in Alto Adige, Trentino e Lombardia che li ricordano. Le mappe però sono diverse e, purtroppo, non ci si può aspettare di diventare forti allenandosi solo in Italia. Lo stesso vale al contrario. Per gli eventi di Genova (2024 e 2026) gli stranieri verranno da noi. Qualcuno ha già iniziato a farlo”.

Gli atleti dell’Orienteering si preparano anche a secco, ossia con lo studio delle mappe. Quanto può essere utile questa attività per facilitare la navigazione su queste aree così complesse? “Dipende da persona a persona. – argomenta il campione azzurro – la  visualizzazione riguarda le scelte di percorso. Se non hai la possibilità di visitare il terreno tutto aiuta, ma non sostituisce quanto detto prima. Ovviamente le disponibilità di tempo ed economiche influenzano il risultato finale”.

In un percorso di costruzione così complesso ci si chiede se l’Orienteering possa essere uno sport per quei talenti naturali presenti in altri sport, quegli atleti che sono in grado di fare la differenza con meno lavoro degli altri. “Sì, esistono anche da noi, ma pure loro hanno investito tanto tempo e ottimizzato le loro qualità. Comprendere le dinamiche specifiche è fondamentale ed il talento va a fondersi con il duro lavoro”. 

 

in collaborazione con Riccardo Scalet

P.I.

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